La malattia coronarica (CAD) è la causa principale dell’insufficienza cardiaca (HF) da disfunzione sistolica. Partendo dal concetto storico di ibernazione miocardica si è sviluppata l’ipotesi che la rivascolarizzazione possa invertire la disfunzione ventricolare promuovendo il rimodellamento inverso del ventricolo sinistro (LVRR) e quindi migliorare la prognosi della disfunzione ischemica del ventricolo sinistro (LV).
In realtà l’unico studio randomizzato che ha dimostrato un impatto prognostico positivo della rivascolarizzazione, nello specifico tramite bypass aorto-coronarico (CABG), sulla disfunzione sistolica di origine ischemica è il follow-up esteso di 10 anni dello studio STICH (1) condotto tra il 2002 e il 2007. Sulla base di questi risultati, le attuali linee guida raccomandano la rivascolarizzazione miocardica per i pazienti con grave disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e CAD idonei all’intervento (classe I, livello di evidenza B). Più recentemente, però, lo studio REVIVED-BCIS2 (2), impiegando la rivascolarizzazione percutanea (PCI) in 700 pazienti con FEVS < 35%, CAD estesa e vitalità dimostrata in segmenti disfunzionali non ha replicato il vantaggio di sopravvivenza della rivascolarizzazione rispetto alla good medical therapy (GDMT). Inoltre, i rigorosi criteri di inclusione ed esclusione di entrambi gli studi limitano la loro generalizabilità nella pratica clinica. Per cercare di fare maggiore luce su tale argomento un gruppo di ricercatori catalani ha condotto, tra il 2012 ed il 2023, un registro multicentrico, il RevascHeart study (3), in pazienti con CAD significativa, disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e un recente ricovero per HF in contesti clinici reali. I criteri di inclusione comprendevano età pari o superiore a 18 anni, storia di precedente ricovero per HF, frazione di eiezione del ventricolo sinistro (LVEF) ≤ 40% e presenza di CAD estesa definita come Tronco comune (LMCA) ≥ 50%, arteria discendente anteriore (LAD) prossimale ≥ 70% o due o più vasi epicardici ≥70%. Criteri di esclusione erano invece recente (< 2 mesi) sindrome coronarica acuta, significativa valvulopatia cardiaca e qualsiasi precedente intervento chirurgico cardiaco. I pazienti sono quindi stati divisi in due gruppi: quelli selezionati per la rivascolarizzazione (CABG o PCI insieme a GDMT (gruppo REVASC) e quelli gestiti esclusivamente con GDMT (gruppo GDMT).
L’end point primario era confrontare i tassi di mortalità totale e cardiovascolare tra i gruppi REVASC e GDMT da soli. End point secondari erano il confrontare di incidenza ed entità di LVRR tra i gruppi e il confronto dei tassi di un endpoint combinato (eventi cardiovascolari avversi maggiori [MACE], mortalità per tutte le cause, infarto miocardico acuto, ictus, riammissione per HF) tra REVASC e GDMT.
Sono stati arruolati 408 pazienti, prevalentemente uomini (83%), con un’età media di 67,1 anni. Non vi erano differenze significative tra i gruppi REVASC e GDMT in termini di età, sesso, fattori di rischio e LVEF. Le ragioni principali per cui i pazienti venivano gestiti con solo la GDMT (n=103) includevano assenza di vitalità (26%), scarsa qualità dei vasi distali (20%), mancanza di ischemia (17%) e comorbilità (16%). 305 partecipanti (75%) hanno invece formato il gruppo REVASC. CABG era la tecnica preferita di rivascolarizzazione, eseguita in 225 casi (74%). I pazienti sottoposti a CABG tendevano ad essere più giovani, presentavano meno comorbilità, erano più comunemente diabetici, possedevano una FEVS più elevata, mostravano meno frequentemente una significativa insufficienza mitralica o un rigurgito tricuspidale e presentavano un’anatomia coronarica più complessa. Il numero mediano di condotti impiegato era tre, con l’arteria mammaria interna sinistra utilizzata in 222 pazienti La rivascolarizzazione è stata più frequentemente completa nel gruppo CABG (64%) rispetto al gruppo PCI (21%).
Nel corso di un follow-up mediano di 44,6 mesi, 100 pazienti (33%) nel gruppo REVASC sono deceduti per qualsiasi causa, rispetto ai 44 pazienti (43%) nel gruppo GDMT (hazard ratio non aggiustato [HR] 0,80; intervallo di confidenza [CI] al 95% 0,56–1,2; p=0,23). Non sono state riscontrate differenze nella mortalità cardiovascolare tra i gruppi (HR non aggiustato 0,87; IC 95% 0,57-1,34; p=0,54) e non c’erano differenze significative nelle cause di mortalità né nell’incidenza di sindrome coronarica acuta tra i due gruppi. Il gruppo GDMT ha comunque mostrato una maggiore necessità di successive procedure di rivascolarizzazione, di ricoveri per HF e di trapianti cardiaci. Dopo l’aggiustamento per le caratteristiche basali, l’analisi multivariata non ha mostrato alcun beneficio significativo della rivascolarizzazione sulla mortalità per tutte le cause (HR 0,81, 95% CI 0,48-1,39, p=0,45) o su quella cardiovascolare (HR 0,97, 95% CI 0,62–1,52, p=0,90) rispetto a GDMT. Né CABG (HR 0,74, 95% CI 0,51-1,08, p=0,13) né PCI (HR 0,98, 95% CI 0,62–1,55, p=0,93) hanno dimostrato una riduzione della mortalità rispetto a GDMT, né una riduzione del MACE (HR 0,83, 95% CI 0,55-1,26, p=0,39). Entrambi i gruppi hanno sperimentato un rimodellamento ventricolare inverso, tuttavia, l’entità del cambiamento è stata notevolmente maggiore nel gruppo REVASC. In particolare, la FEVS è migliorata in media dell’11% punti nel gruppo REVASC rispetto agli 8 punti nel GDMT gruppo (p<0,01).
Lo studio fornisce 3 risultati principali: 1) la rivascolarizzazione non ha mostrato un’associazione significativa con una riduzione della mortalità totale o cardiovascolare rispetto alla GDMT 2) non si sono rivelate differenze tra CABG e PCI, 3) la rivascolarizzazione ha dimostrato risultati notevolmente migliori in termini di miglioramento della FEVS e di riduzione dei diametri ventricolari. La mancanza di un beneficio percepibile dalla rivascolarizzazione può essere attribuita a diversi fattori. In primo luogo, l’avanzamento della GDMT contemporanea, in secondo luogo una percentuale significativa di pazienti della coorte studiata aveva HF de novo e quindi questi individui potrebbero aver sperimentato un rapido miglioramento della funzione ventricolare con GDMT indipendentemente dalla rivascolarizzazione, infine, la coesistenza di CAD e di disfunzione ventricolare non implica inevitabilmente una relazione causale. Uno studio recente (4), ad esempio, indica che fino al 17% dei pazienti con CAD e disfunzione sistolica mostrano immagini di risonanza magnetica compatibili con cardiomiopatia non ischemica o mista. Di conseguenza, questo sottogruppo di pazienti potrebbe trarre meno beneficio da interventi di rivascolarizzazione.
Tra i limiti dello studio vanno segnalati che l’assegnazione dei pazienti ai gruppi REVASC o GDMT era basata su basi cliniche e che neanche la scelta della modalità di rivascolarizzazione era randomizzata. Inoltre, lo studio ha incluso pazienti tra il 2012 e il 2023, durante i quali ARNI e SGLT2i non facevano ancora completamente parte della GDMT e pertanto il beneficio della terapia medica potrebbe essere sottostimato.
Il dibattito sull’efficacia o meno della rivascolarizzazione in questo specifico contesto clinico rimane ovviamente ancora acceso. Ulteriori studi sono indispensabili per risolverlo in modo definitivo. Lo STICH3C, già in corso, sta randomizzando oltre 700 pazienti con disfunzione ischemica del ventricolo sinistro (inclusa la malattia del tronco comune) a PCI versus CABG versus GDMT contemporanea e potrà probabilmente contribuire a fare luce su questo scenario complesso.
Bibliografia:
- Velazquez EJ, Lee KL, Jones RH et al.; STICHES Investigators. Coronary-artery bypass surgery in patients with ischemic cardiomyopathy. N Engl J Med 2016;374:1511–1520
- Perera D, Clayton T, O’Kane PD et al.; REVIVED-BCIS2 Investigators. Percutaneous revascularization for ischemic left ventricular dysfunction. N Engl J Med 2022;387(15):1351–1360.
- Moliner-AbósC, Calvo-Barceló M, Solé-Gonzalez E et al. Revascularization and outcomes in ischaemic left ventricular dysfunction after heart failure admission: The RevascHeart study. European Journal of Heart Failure (2024) doi:10.1002/ejhf.3463
- Bawaskar P, Thomas N, Ismail K et al. Nonischemic or dual cardiomyopathy in patients with coronary artery disease. Circulation 2024;149:807–821